di LUIGI GIRLANDA
Dopo la morte di Gesù, come è noto, Giuseppe di Arimatea, membro autorevole del Sinedrio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Cristo e dargli degna sepoltura in un sepolcro nuovo di sua proprietà (cfr. Mc. 15, 42-45). L’evangelista Luca precisa che Giuseppe era “persona buona e giusta” e che “non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri” (Lc. 23, 50-52), dando ulteriore conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che la responsabilità primaria del processo e della condanna di Gesù è tutta interna al giudaismo – i romani, tramite Pilato, furono coinvolti solo perché, sotto il dominio dell’Impero, il Sinedrio non poteva eseguire autonomamente delle condanne a morte. Senza i Romani, Gesù sarebbe morto lapidato, secondo l’uso ebraico, come successe infatti al primo martire cristiano, santo Stefano, che fu ucciso dai Giudei approfittando della “vacanza di potere” dovuta a un periodo di transizione tra un procuratore romano e un altro.
Grazie a Giuseppe di Arimatea, aiutato da Nicodemo – altro dottore della Legge e membro del Sinedrio (a riprova che non tutti i capi di Israele hanno misconosciuto il Messia promesso) – Gesù non finì nella fossa comune – sorte riservata a quasi tutti i condannati a morte – ma in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia e situato poco lontano dal luogo della crocifissione. Ancora oggi, chiunque visiti a Gerusalemme la basilica del Santo Sepolcro, può vedere come i due luoghi (Calvario e tomba) sono talmente vicini – circa 15/20 metri – da essere inglobati nella stessa chiesa. Dopo aver fasciato e avvolto in un lenzuolo (sindòn) il corpo di Gesù, fu rotolata una pesante pietra davanti alla porta del sepolcro. Su richiesta del Sinedrio, che temeva che qualcuno trafugasse il corpo e poi dicesse che “quell’impostore” (Mt. 27, 63) era risuscitato come aveva detto, Pilato concesse che venissero apposti i sigilli alla pesante pietra e che un distaccamento della guardia del tempio (soldati ebrei, dunque, non militari romani) facesse la guardia alla tomba.
Da quel momento, inizia quello che è stato definito “il silenzio di Dio”, identificato soprattutto con il Sabato Santo, il giorno che Gesù ha passato interamente nella tomba (visto che il venerdì era ancora vivo e che la domenica sarà risuscitato). Tutto sembra finito, tutto sembra irrimediabilmente votato allo scacco definitivo. Quell’oscuro predicatore della Galilea che molti avevano creduto essere il Messia è stato palesemente sconfitto. La sua morte e quella pietra rotolata davanti al sepolcro, sono la prova tangibile che i suoi seguaci si erano sbagliati. Due suoi discepoli, la domenica mattina seguente, danno voce a questo sentimento mentre, in cammino verso Emmaus, confessano a un viandante straniero che hanno incontrato: “noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Lc. 24,21).
Comprensibile lo stato d’animo dei discepoli di Emmaus. Eppure Gesù, anche in quel lasso di tempo tra la morte e la risurrezione, ha annunciato e operato la salvezza. C’è una verità di fede fondamentale, anche se ignorata da molti, che proprio durante il Sabato Santo dovrebbe essere maggiormente presa in considerazione. Si tratta della “discesa agli inferi” di Gesù. Verità di fede che è espressamente citata nel Simbolo degli apostoli (che si recita a messa in particolari periodi dell’anno), ma che purtroppo è taciuta dal più conosciuto Credo che si recita ordinariamente la domenica. Comunque, a qualcuno suoneranno familiari le parole che sono usate dalla chiesa nel Simbolo degli Apostoli: “patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte”.
Cosa significa che Gesù discese agli inferi? Chiariamo innanzi tutto il significato del luogo. Non si tratta dell’inferno, luogo della sofferenza e dannazione eterna, da cui è impossibile uscire e in cui vanno a finire tutte le anime dei peccatori impenitenti. Gli “inferi” in cui scese Gesù con la sua anima, dopo il distacco dal corpo dovuto alla morte, sono un luogo che la tradizione ha chiamato anche Limbo, dove si trovavano tutte le anime dei “giusti” vissuti da Adamo ed Eva fino alla morte redentrice di Cristo. Queste anime giuste e buone non bruciavano certo tra le fiamme dell’inferno, ma non potevano nemmeno entrare in Paradiso, le cui porte sono state aperte solo dal sacrificio redentore della croce di Cristo. Ecco perché in alcune opere d’arte – anche nel crocifisso sopra l’altare della chiesa di Sant’Agostino a Gubbio – dietro la croce di Gesù vengono dipinte le ante di una porta che si spalanca sul Cielo.
Tutti i giusti vissuti prima di Gesù attendevano anch’essi negli inferi la liberazione, alcuni da secoli. Dopo la sua morte, Gesù è sceso con la sua anima in quel luogo, per portare anche a loro la sua salvezza. La croce di Cristo, cioè, ha valore “retroattivo”, salva anche tutti i giusti vissuti prima di Gesù e che, pur avendo condotto una vita santa, non potevano entrare in Paradiso e vedere Dio. E questo ci insegna che non ci si salva da soli, nemmeno facendo tutto il bene del mondo. L’unica salvezza viene da Cristo, il quale non a caso ha detto: “nessuno viene al Padre, se non per mezzo di me” (Gv. 14,6).
Nel quarto canto dell’Inferno, Dante visita proprio il Limbo e, per essere certo della fede che vince ogni errore (cioè quella cattolica), chiede a Virgilio, che lì abita, se qualcuno è mai riuscito a uscire da quel luogo. E Virgilio, ovviamente, conferma la dottrina cattolica dicendo che, poco dopo il suo arrivo (Virgilio è morto nel 19 a.C.), vide venire uno – Cristo – coronato con segni di vittoria (le ferite della Passione sono la gloria e la vittoria di Cristo). Egli portò via Adamo, Abele, Abramo, Mosè, re Davide e tanti altri. Il cattolicissimo Dante conosceva bene la dottrina cattolica traducendola in sublime poesia. In questo Sabato Santo, forse è bene andarsi a rileggere le indimenticabili terzine di Dante.
“Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore”,
comincia’ io per volere esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
“uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?”.
E quei che ’ntese il mio parlar coverto,
rispuose: “Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé,
e altri molti, e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati”.
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