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Addio a Guido Carlo Gatti, il marchese del basket nato a Gubbio

Guido Carlo Gatti

Se n’è andato Guido Carlo Gatti, simbolo del basket italiano. Era nato a Gubbio il 29 aprile 1938 ed è morto ieri (martedì 3 settembre). I suoi genitori erano Vittorio Gatti, un imprenditore e discendente nobile, e Maria Fedora. Era il nipote di Mario Rosati, tra i fondatori dell’associazione Maggio Eugubino. Ha frequentato il liceo classico e successivamente si è dedicato alla carriera sportiva, per poi gestire l’azienda vestiaria fondata dal padre che aveva marchi quali Armani, Versace e Moschino.

Il Corriere della Sera ha scritto di lui: “Addio al marchese del basket, quel Guido Carlo Gatti, spentosi a Varese all’età di 86 anni, che nella sua non lunga ma intensa carriera ha avuto l’onore di fissare una primizia storica: è stato il primo italiano che è riuscito a schiacciare a canestro. «Addirittura nel 1959 l’ho visto effettuarne una all’indietro», ricorda Antonio Bulgheroni, presidente dell’attuale Pallacanestro Varese, suo ex compagno di squadra alla Ignis e poi nella Pallacanestro Milano, ma anche imparentato grazie alle nozze della cugina Giovanna con il cestista scomparso. Era la fine degli anni 50, il nostro basket aveva ancora venature di «palla-al-cesto»  ma stava vivendo i primi sussulti di un cambio di pelle che si sarebbe concretizzato nel decennio successivo e soprattutto negli anni 70, quelli nei quali la Rai e le telecronache di Aldo Giordani sdoganarono uno sport cresciuto anche da noi e diventato finalmente basket. Guido Carlo Gatti, nativo di Gubbio, figlio di Vittorio Gatti, imprenditore nobile umbro e di Maria Fedora, anche conosciuta come Mammola, era portato per l’atletica leggera, sapendo correre veloce e avendo qualità notevoli nel salto in alto. Mise però queste doti al servizio della pallacanestro, debuttando a Perugia, passando prima a Torino e poi al Gira Bologna e infine finendo nel 1958 a Varese (dopo essere stato scartato dai rivali del Simmenthal), dove la Ignis era una realtà sempre più importante e, sotto la guida prima di Enrico Garbosi e poi di Vittorio Tracuzzi, destinata ad approdare a due titoli di campione d’Italia (1961 e 1964). Dopo il secondo scudetto, però, il marchese scelse di andarsene e la destinazione fu la Pallacanestro Milano, abbinata all’Onestà: ci rimase fino al 1969, per fare quindi un giro conclusivo alla Stella Azzurra Roma. La Milano che voleva competere con i cugini dell’Olimpia era una squadra corsara e non da titolo: però era divertente e spesso vinceva, con Gatti che infiammava i tifosi a suon di schiacciate. La sua carriera, dicevamo, avrebbe potuto essere più lunga, ma Guido Carlo si vedeva già imprenditore e impegnato nella gestione dell’azienda vestiaria fondata dal padre, che si occupava di marchi già famosi all’epoca, quali Armani, Versace e Moschino. Però nel decennio di attività tra i canestri, Gatti ebbe modo anche di essere azzurro (76 partite, 371 punti) , di partecipare ai Giochi 1968 e di vincere un oro (1963) ai Giochi del Mediterraneo e un argento (1959) all’Universiade. In quell’Italia che preparava la spedizione messicana c’era pure un giovanissimo Dino Meneghin. Dino non sarebbe partito per Città di Messico, ma visse il periodo dei raduni pre-olimpici e nella sua autobiografia «Passi da Gigante» ha avuto modo di raccontare un episodio che riguardava il marchese. Ecco il passaggio: «Ci allenavamo all’Acqua Acetosa, dove era stata installata una cabina che doveva creare la pressione corrispondente all’altitudine della capitale messicana. Nell’attesa di entrare, ci bardavano con sensori, elettrodi e quant’altro. Finalmente entrammo io, Guido Carlo Gatti e Paolo Vittori. Gatti era nervosissimo e alla vista di quell’ambaradan tuonò: “Sia chiaro, su di me nessun esperimento strano!”. Arrivò il fatidico inizio del test: una prova da sforzo in bicicletta. Si cominciò a pedalare, ma ad un certo punto… bim, bum, bam, fumo e scintille proprio dal macchinario di Guido Carlo. Si era sfasciato tutto, eravamo tornati alla pressione del livello del mare e lui stava bestemmiando come un turco…».Be’, siamo convinti che il marchese, da lassù, se leggerà quel ricordo di Meneghin, non potrà non mettersi a ridere.