Quando il 23 marzo 2004 venne ufficializzato l’arrivo di Giuseppe Galderisi fu una sorpresa gigantesca. Il direttore sportivo rossoblù Claudio Crespini aveva deciso con la società, presieduta da Giovanni Urbani, di cambiare perché la squadra era spenta in una posizione anonima di classifica. Nanu la rigenerò con 6 vittorie e una sconfitta, l’ultima giornata quando la scalata per entrare nei playoff tra le prime cinque era compiuta. Il primo giorno di allenamento conquistò tutti: i giocatori in cerchio attorno a lui che parlava nel silenzio e l’attenzione generale. Nanu è poi tornato il 26 novembre 2018 chiamato da Sauro Notari a sostituire Alessandro Sandreani per sistemare anche in quel caso molte cose. Ha fatto la storia del calcio Galderisi, nato a Salerno il 22 marzo 1963. I suoi primi sessant’anni sono il traguardo di uno che ce l’ha fatta togliendosi tante soddisfazioni, in campo soprattutto ma anche in 23 anni di panchina. Si è rivelato un fuoriclasse in campo e fuori per gli straordinari rapporti che ha saputo e sa tenere, con umiltà e disponibilità verso tutti.
La cosa più bella in sessant’anni?
“La nascita di mio figlio Andrea Massimo. Vale più degli scudetti, al di sopra di ogni cos. Lui fa musica. Ha un duo, si chiamano GAM e hanno appena diffuso il singolo Come nelle vene”.
Calcisticamente il 1963 che classe calcistica è stata?
“Una gran bella leva. Penso a Bergomi, Riccardo Ferri, Filippo Galli. Abbiamo raggiunto grossi risultati anche in azzurro, fin dai livelli giovanili”.
Chi è Galderisi oggi?
“Sono ancora un sognatore. Un ragazzo com’è nel mio spirito e un uomo che ha imparato tanto nel suo percorso di vita. Cerco di mantenere coerenza ed equilibrio, senza perdere mai di vista i sogni che sono sempre stati per me importanti per ogni sfida da affrontare e obiettivo da raggiungere”.
Ha rimpianti?
“Faccio fatica a guardare dietro perché non mi piace. Qualche errore c’è stato, anzi più di uno, ma sono proprio gli errori che ti rendono più forte per non ripeterli. Sono umani. Sono orgoglioso di accettare gli errori insieme a tutte le cose belle che ho fatto”.
Il 20 agosto 1980 l’esordio con la Juve in Coppa Italia sul campo dell’Udinese (2-2), poi la prima presenza in Serie A il 9 novembre coi bianconeri a Perugia (0-0). Cos’ha rappresentato per lei la Juve?
“Una gran bella palestra sotto l’aspetto professionale ma soprattutto umano. Sono cresciuto in mezzo a tanti campioni, soprattutto persone che ti insegnavano come comportarsi. Devo molto a Boniperti e Vycpálek, mi hanno accolto in famiglia e fatto crescere. Ho vissuto con dei monumenti calcistici e li porto ancora dietro”.
Vialli diciottenne disse “Sogno la Juve, vorrei essere al posto di Galderisi”. Che effetto le fa a distanza di anni?
“Luca l’ho vissuto intensamente in Nazionale nel percorso di Coverciano. E’ sempre stato ambizioso e determinato, come lo ero anche io. Entrambi giovani abbiamo sempre cercato di raggiungere il massimo. Voleva essere il migliore di tutti, anche io. Ce n’erano che volevano emergere, eravamo molto uniti e vicini. Ci consigliavamo per aiutarci a crescere”.
Trapattoni le suscita sentimenti?
“Mi suscita un’emozione continua. Gli allenamenti al Combi le sue grida, le fischiate quando facevo qualcosa di buono e meno buono. Ero il ragazzino che viveva il suo sogno e poteva dare soddisfazioni. L’ho sempre considerato come un padre, come Boniperti che mi bacchettava in un modo e mi coccolava in un altro”.
Che differenza con Bagnoli?
“Ecco un altro fondamentale per la mia vita, dal quale ho imparato moltissimo. Caratterialmente era diverso ma li univa la voglia di vincere. Credo che Bagnoli sia stato l’artefice di qualcosa di unico. Ringrazio chi mi ha fatto essere lì, sono fortunato di essere capitato in quel gruppo. Con Mascetti e i giocatori, quel Verona ha esaltato una tifoseria pazzesca e una città incredibile”.
Al Milan avrebbe voluto di più?
“Sicuramente. Ero andato con la carica giusta e al contempo il dispiacere per aver lasciato Verona. Era un percorso che dovevo fare, una bella sfida. Ho sempre cercato di dare il massimo, e l’annata andò così. Poi arrivò Sacchi ma avevo già parlato con la Lazio. Mi diedero del matto perché scendevo in Serie B. i tifosi rossoneri mi ricordano come se avessi fatto 30 gol: ne feci uno in campionato e uno in Coppa Italia. Hanno capito l’attaccamento e la persona, mi basavo su queste cose. I valori mi piacevano”.
Valgono nei suoi ricordi più i due scudetti e la Coppa Italia a Torino o il tricolore a Verona?
“Non dimenticherò mai il mio primo scudetto. Trap mi ha ricordato tante volte che se non ci fossi stato io sarebbe stata durissima con la Fiorentina che era forte. C’erano Paolo Rossi squalificato e Bettega infortunato. Il mister è stato un fenomeno a tirarmi fuori dopo due anni che mi allenavo con loro. Lo scudetto del Verona è stato unico e per sempre, ancora abbiamo una chat del gruppo e ha sempre avuto ragione Volpati nel dire che solo con il passare degli anni ci saremmo veramente resi conto di quanto avevamo fatto”.
Quando vede i campioni di oggi chiudere la carriera all’estero, pensa che sia più facile o difficile di quando lo fece lei negli Stati Uniti dal 1996 al ’98?
“Oggi è più facile. A 33 anni feci un’esperienza fantastica in un mondo che conoscevo meno. Aveva solo bisogno di tempo, come tutte le cose. Adesso credo che sia fondamentale fare esperienza e si dev’essere felici dove si può esserlo. Meglio andare in qualunque posto per migliorare a livello umano, lingua e comportamenti”.
In azzurro meritava più fortuna ripensando alle 10 presenze senza gol?
“Credo che avrei potuto e dovuto essere più bravo, anche la scelta di andare in B non ha aiutato. Solo al pensiero di non essere riuscito a far gol dall’esordio nell’84 e nelle occasioni capitate, soprattutto amichevoli. Quel Mondiale dell’86 tanto sognato è stato un grandissimo punto di arrivo per i sacrifici. Peccato che non sia andato come quelli dell’82, ’90 e ’94 nonostante un gruppo forte. Non scattò la scintilla”.
Il compagno più forte col quale ha giocato?
Preben Elkjær Larsen a Verona. Io sono stato vicino a Paolo Rossi e Bettega, ho giocato con tanti campioni ma lui aveva qualcosa di particolare e ci ritrovavamo con il mio modo di giocare e le mie qualità”.
Il difensore che l’ha fatta penare di più?
“Ce n’erano in quel periodo di fortissimi. Penso a Ferri, Vierchowod e Bergomi”.
Il giocatore che in assoluto l’ha impressionata di più?
“Mi alleavo al Combi e Trap diceva che dovevo migliorare il sinistro. Quando è arrivato Maradona mi ha aiutato a crescere. Io sognatore, a Verona nella sua prima partita italiana ho visto il Campione. Sono stato fortunato per essere cresciuto con i miti di Pelè, Cruijff, Platini”.
L’hanno penalizzata più gli infortuni o un certa discontinuità?
“Ho avuto momenti esaltanti e di grande difficoltà. E’ sempre dipeso molto da come sono fatto. Quando soffrivo abbassavo la testa e diventavo negativo e pesante. Avrei dovuto essere più bravo in certi momenti”.
Da allenatore qual è l’esperienza migliore in 23 anni di panchina?
“Quando ho smesso di giocare e pensandoci quando ero negli Usa, ero convinto di poter fare l’allenatore. Mi sono tolto delle soddisfazioni in piazze difficili, ho fatto belle cose in realtà come Avellino, Foggia, Arezzo. A Gubbio ho vissuto due esperienze straordinarie, ricordo la città e l’ambiente che mi ha accolto benissimo. Sono cresciuto con dei valori e cerco di portarli negli spogliatoi dono sono stato. Ho avuto tanti giocatori che si ricordano della correttezza e del fatto che i ragazzi li guardo sempre negli occhi e sono me stesso”.
Più forte Galderisi giocatore o allenatore?
“Sono convinto più forte l’allenatore, ma i numeri dicono diversamente”.
E’ stato eletto a Padova il giocatore biancoscudato del secolo: perché finora non è mai riuscito ad allenarlo?
“Un altro passaggio importante della mia vita. Non è male sapere di essere il giocatore simbolo. Per certi aspetti non dovrei mai allenarlo, però penso che sia una sfida intrigante. Forse capiterà, ma nessuno cancellerà i 6 anni in campo con un gruppo fantastico ed è stato un onore portarlo in Serie A”.
Il 21 gennaio 2004 il cuore le ha fatto un brutto scherzo: cosa le è rimasto di quel momento difficile?
“Sono sempre stato uno che non si dà mai per vinto vivendo tutte le situazioni positive e negative. E’ stata una bella lezione di vita, qualcuno dall’alto mi ha voluto dare una lezione di vita e di insegnamento. Avevo smesso di giocare da pochi anni, ero alla ricerca di diventare un grande allenatore e lo cerco ancora. Ho avuto paura, ho visto il bianco”.
Oggi c’è un Galderisi nel calcio italiano?
Non lo so, molti dicono Raspadori ma io sono più attaccante. Sono nato come trequartista, poi il Trap mi fece diventare un attaccante puro”.
Chi le piace tra gli attaccanti italiani e stranieri?
“Haaland mi lascia a bocca aperta, anche se non ha nulla a che vedere con il mio modo di giocare. E’ fortissimo Osimhen. Mbappé deve alzare ancora di più il suo livello: mi piacciono gli attaccanti che partecipano e mi fanno divertire, lui è tra quelli. Per me contano qualità, fantasia e serenità”.
Cosa vuole che si dica di lei?
“Per me più delle parole conta come mi trattano, mi guardano e mi sorridono. Guardo la gente negli occhi. Mi sono sempre dedicato a tutti, non sono mai uscito da un locale di nascosto. Ho sempre vissuto come sono fatto, a lungo andare questo mi ritorna”.
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