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È Natale, non soffrire più

Gubbio, l'Albero di Natale più grande del mondo

di Luigi Girlanda

Docente di filosofia e scienze umane al polo liceale “Giuseppe Mazzatinti” di Gubbio. Diplomato in scienze religiose presso l’Istituto teologico di Assisi. Iscritto all’Ordine dei giornalisti dell’Umbria. Collaboratore della rivista di apologetica Il Timone e della testata VivoGubbio. Fondatore e presidente dell’associazione culturale Benedetto XVI.

Forse mai come durante il periodo natalizio si fa più stridente il contrasto tra il significato autentico della festa e le dinamiche del mondo, che hanno ormai contaminato anche la Chiesa cattolica. La saggezza popolare ha brillantemente riassunto, in uno dei canti tradizionali più amati, lo stato d’animo che dovrebbe cogliere il credente di fronte alla mangiatoia che accoglie il Figlio di Dio diventato uomo: “È Natale… non soffrire più!”. Eppure, in un mondo che ha perso il senso di stupore e meraviglia che promana dal Bambino Gesù, queste parole suonano grottesche, quasi infantili, quando non decisamente false. Infatti, mai come nel periodo natalizio si fa più angosciante il senso di vuoto e inutilità della vita dell’uomo contemporaneo, come sanno bene gli psicologi che, proprio in questo periodo, vedono aumentare vertiginosamente le ricadute nella depressione e nel malessere psicologico.

A Natale un senso di struggente nostalgia coglie inevitabilmente gli animi più sensibili, che magari tra il rumore assordante e la false risate dei cenoni, si ritrovano a pensare a quanti cari non sono più al loro fianco, senza avere nessuna possibilità di gridare il proprio dolore per non rovinare la festa agli altri, apparentemente così felici. Anno dopo anno, più che con le presenze ci si ritrova a fare i conti soprattutto con le assenze ai vari momenti di festa con amici e parenti. A questo si aggiunga il clima surreale che a volte viene a crearsi tra persone costrette a far finta di volersi bene, quando magari durante tutti gli altri giorni dell’anno si ignorano cordialmente o, peggio, si osteggiano e combattono crudelmente, nonostante il legame di parentela o amicizia.

Ma allora che senso hanno quelle parole dei canti natalizi che ci invitano a non soffrire più? Difficile davvero capire il significato di quelle espressioni della saggezza popolare ricolme di autentica fede cattolica, visto che purtroppo, oggi, anche la Chiesa sembra essersi arresa a celebrare un Natale tutto “orizzontale”. Qualche tempo fa, ad esempio, Bergoglio se ne è uscito con un ardito paragone fra Gesù bambino e il dramma dei profughi. I parroci, ormai, salvo tutte le auspicabili eccezioni, alle varie messe di Natale non sanno fare altro che tuonare contro i danni del consumismo o, peggio ancora, blaterare omelie moralistiche sulla tutela dell’ambiente o sull’accoglienza. Intendiamoci bene: valori importanti, almeno finché restano inquadrati nella sana prospettiva cattolica, ma che nelle solennità più importanti dovrebbero lasciare il posto al significato più profondo dell’essere cristiani.

Almeno nella notte più santa dell’anno, bisognerebbe venire in aiuto ai cuori feriti delle persone comuni, ricordando loro che quel Bambino è Dio, venuto sulla terra per redimerci e aprirci le porte del Paradiso, se solo sapremo accoglierlo. È urgente ricordare a un mondo disperato che la vita eterna esiste davvero e non è un’alienazione. Si dovrebbe annunciare con coraggio che il nostro corpo un giorno risusciterà e potrà riabbracciare fisicamente i cari defunti che a ogni Natale ci mancano da morire. Ecco quello che i nostri antenati cattolici (dipinti come ingenui da certa teologia sedicente “adulta” di oggi) avevano chiaro in mente quando hanno composto i canti natalizi. Ancora oggi vengono a ricordarci la verità più bella del mondo: anche se abbiamo l’animo ferito, anche se durante il brindisi di mezzanotte i nostri occhi si riempiono di lacrime perché il cuore corre inesorabilmente a ricordare chi non c’è più, il Natale di Gesù Cristo, unico salvatore del mondo, è l’unica speranza sicura che abbiamo. La sofferenza allora acquista un senso e non è più disperata. E ognuno potrà unire la sua voce a quella di chi ci ha preceduto, cantando è Natale, non soffrire più!

Questo non significa indugiare in una falsa allegria, quasi che il cristiano debba sempre essere un allegrone un po’ stupido, come molti oggi pensano. Il dolore dell’esistenza rimane. Solo che non è più una sofferenza disperata, perché è trasfigurata da una certezza incrollabile: uniti a quel Bambino, credendo in lui, potremo davvero un giorno esistere per sempre, riaprire gli occhi e vedere ancora il sorriso dei nostri cari che ci è rimasto nel cuore, prenderli ancora fisicamente per mano, vivere con loro una vita senza più morte e sofferenza. Questo è il Natale cattolico, non una falsa illusione. Ma i pastori della neochiesa e i sacerdoti non ce lo raccontano più.